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CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA E BUONA FEDE CONTRATTUALE


CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA E BUONA FEDE CONTRATTUALE

 

(Cass. 22/02/2019 n° 5401)

 

In tema di risoluzione del contratto per inadempimento il Giudice deve valutare il comportamento dei contraenti secondo il principio della buona fede, anche in presenza di una clausola risolutiva espressa

 

Questo il principio di diritto espresso da una recente ordinanza della Cassazione del 22/02/2019 n° 5401 in un caso in cui un Arbitro, nominato dalle parti, aveva dichiarato la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita, tra una società A ed un Tizio, avente ad oggetto un immobile che doveva essere edificato da una società B, in qualità di cessionaria di un ramo di azienda della prima società, condannando Tizio al pagamento di una penale, detratto quanto già corrisposto a titolo di acconto sul prezzo.

A seguito dell’impugnazione di Tizio, la Corte di Appello territoriale, accertata la nullità del lodo ed esaminata la controversia nel merito, perveniva alle stesse conclusioni dell’Arbitro, adottando analoga decisione.

La controversia approdava in Cassazione, su ricorso di Tizio, il quale affidava il gravame a due motivi. Qui rileva il primo, consistente in una inadeguata valutazione della buona fede del ricorrente che, diversamente  considerata, sarebbe stata in grado di evitare la risoluzione per inadempimento all’obbligazione di pagare il prezzo nei termini stabiliti, avendo omesso il giudice/arbitro di esaminare alcune importanti circostanze, ossia: a) l’accettazione della società B, in luogo del pagamento del residuo prezzo tramite bonifico bancario, dell’accollo del mutuo edilizio necessario a finanziare l’immobile oggetto del preliminare; b) il fatto che mancava nel contratto la indicazione della scadenza dei pagamenti rispetto agli stati di avanzamento, limitandosi il preliminare ad un generico rinvio all’art. 10 della Convenzione Comunale, mai reso noto al promissario acquirente; c) il fatto che la società B avrebbe rinunciato tacitamente ai termini di pagamento stabiliti dall’art. 10.

La S.C. riteneva il ricorso infondato avendo la Corte di merito chiaramente indicati gli elementi di prova che supportavano il giudizio di inadempimento contrattuale di Tizio, con argomentazioni esenti da vizi.

Ed, invero, era stata accertata, nel giudizio di merito, la sussistenza di un palese inadempimento di Tizio che aveva interrotto il pagamento del prezzo, dopo aver versato unicamente tre rate su dieci, senza neanche addurre un giustificato motivo, nonostante le numerose diffide pervenutegli dalla società B, e senza, finanche, curarsi di quelle del Comune, dirette a sollecitare il saldo in favore dell’impresa.

In pratica, il Giudice di merito, sottolinea la Cassazione, aveva tratto il proprio convincimento dell’inadempimento di Tizio sulla base della condotta concreta dallo stesso tenuta che si sostanziava nel mancato pagamento di gran parte del prezzo, nonché nella insussistenza dell’accordo secondo cui la società B avrebbe accettato l’accollo del mutuo edilizio in luogo del pagamento del residuo prezzo tramite bonifico bancario.

Non è la prima volta che la Cassazione esprime un principio di diritto analogo a quello di cui alla ordinanza in commento, citandosi, in senso conforme, da ultimo Cass. 23/11/2015 n° 23868 e Cass. 26/06/2018 n° 16823.

In linea generale, la clausola risolutiva espressa, disciplinata dall’art. 1456 CC prevede una ipotesi di risoluzione di diritto e dispone che il contratto si risolve automaticamente allorché una determinata obbligazione non sia adempiuta. Il contraente non inadempiente gode di un diritto potestativo nei confronti dell’altro potendo decidere liberamente di valersene o meno. Nel primo caso, la comunicazione positiva produce i medesimi effetti della domanda giudiziale con una differenza significativa laddove è stabilito che non è necessario provare la gravità dell’inadempimento, giacché le parti hanno già valutato preventivamente, con la predisposizione della clausola, quale violazione sia sufficiente a provocare la risoluzione.

Se dalla disposizione dell’art. 1456 CC esula l’accertamento della gravità dell’inadempimento per gli interessi del creditore, di cui all’art 1455 CC, ciò però non significa che sia precluso al Giudice di accertare se effettivamente un inadempimento vi è stato, capace di escludere la stipulazione contrattuale sulla base del dovere generale di buona fede contrattuale. Un dovere che costituisce uno dei pilastri della disciplina legale delle obbligazioni e che viene violato non soltanto quando una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all’altra ma anche quando il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale. Correttezza e buona fede contrattuale (principi individuati da tempo nei referenti normativi di cui agli artt. 1175, 1375, 1356, 1371 etc. CC.) rappresentano “una clausola generale idonea a realizzare la chiusura del sistema, nel senso che offre criteri per colmare le lacune che quest’ultimo può rivelare nella molteplicità delle situazioni proprie della moderna vita economica” (così Cass. 16823/2018 già citata).

Sullo sfondo, anche il divieto dell’abuso del diritto che, insieme al dovere di comportamento secondo correttezza e buona fede, modula, per così dire, la condotta delle parti che deve essere improntata ad un dovere di collaborazione, che ovviamente non si estende al punto da comprendere anche l’obbligo di attivarsi per sopperire alle manchevolezze o alle negligenze della controparte (v. Cass. 07/08/1990 n° 7987), ma impone alla parte stessa di attivarsi per salvaguardare l’utilità dell’altrui prestazione.

“In generale è dovere di ciascuna delle parti contrattuali tutelare l’utilità e gli interessi dell’altro nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori” (Cass. 16823/2018 già citata).

Il principio di buona fede si pone, allora, nell’ambito della fattispecie dell’art. 1456 CC, come canone di valutazione sia dell’esistenza dell’inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l’abuso ed impedendone l’esercizio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi, che quindi non riceveranno tutela dall’Ordinamento).

In conclusione, in presenza della clausola risolutiva espressa, insegna la Cassazione, il contraente non inadempiente dovrà valutare la condotta di controparte nella ricordata prospettiva collaborativa. Sarà poi il Giudice a dover valutare le condotte in concreto tenute da entrambe le parti del rapporto obbligatorio, allorché sia adito con la domanda volta alla pronuncia dichiarativa ex art. 1456 CC ; laddove, da tale valutazione , risulti che la condotta del debitore, pur realizzando, sotto il profilo materiale, il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, è conforme al principio della buona fede, ciò lo condurrà ad escludere la sussistenza dell’inadempimento tout court e, quindi, dei presupposti per dichiarare la risoluzione del contratto.

L’inadempimento all’obbligazione, contrattualmente previsto come integrativo del potere di provocare in via potestativa la risoluzione del contratto, deve cioè essere effettivo, perché la previsione negoziale è da interpretare ed eseguire secondo buona fede.

Il tema, quindi, attiene non al requisito soggettivo della colpa, ma a quello oggettivo della condotta inadempiente, che in concreto manca, laddove essa – secondo una lettura del canone della buona fede – risulta in concreto inidonea ad integrare la fattispecie convenzionale, rendendo così non plausibile l’esercizio del diritto di risoluzione da parte dell’altro contraente (v. anche Cass. 23868/2015 già citata).


Inserito il 11 marzo 2019 alle 00:00:00 da Antonio.Arseni

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